Chi Siamo #6
In questo articolo mi riferisco ancora allo studio di Raffaele Caterina, riportato
sul n° 5 della rivista informatica “Cosimo”, per cogliere nella descrizioni delle
usanze di caccia di una tribù di pastori/agricoltori, l’evidente evoluzione
rispetto alle abitudini delle popolazioni dedite esclusivamente alla caccia, come
i boscimani o i pigmei.
I Thonga appartengono al popolo Bantu e pur vivendo in Africa
contemporaneamente ad altre popolazioni di cacciatori raccoglitori, si erano
impadroniti della domesticazione animale e vegetale per trarne un grande
vantaggio alimentare: il loro gruppo superava le 80.000 unità all’inizio del
secolo scorso, contro le poche migliaia dei popoli circostanti, dediti
esclusivamente alla caccia e alla raccolta.
Come è documentato nella successiva descrizione, il tarlo della proprietà del
suolo si è insinuato nella cultura sociale di questo gruppo che mantiene un
forte legame con caccia, ma lo modifica in rapporto ad una nuova struttura
sociale governata da un vero capo tribù e suddivisa nelle prime classi sociali.
Il gruppo è stato studiato e censito all’inizio del secolo scorso, ma lo stadio
della sua evoluzione sociale, in realtà, si può assimilare a quello appena
successivo alle tribù di cacciatori/raccoglitori del paleolitico.
I Thonga quindi, possono essere visti come l’anello di congiunzione tra le
primitive tribù di cacciatori e quelle dedite esclusivamente all’agricoltura e
all’allevamento.
Lo studio delle loro regole di vita può considerarsi un riferimento e un modello
per comprendere le conseguenze dell’evoluzione sociale successiva alla
scoperta della manipolazione delle piante e degli animali.
Siamo all’inizio dello scollamento dalle abitudini “naturali”: il bipede dal pollice
opponibile alle altre dita, sta diventando l’uomo che modificherà le specie
viventi a suo vantaggio, sconvolgendo gli equilibri del pianeta!
II. - POPOLAZIONI DI AGRICOLTORI E PASTORI.
THONGA.
La tribù Thonga era composta di un gruppo di popolazioni Bantu stanziato sulla
costa orientale dell'Africa del sud.
Essi si dividevano in sei gruppi e parlavano dialetti diversi. Il censimento del
Transvaal effettuato il 17/04/1904 stimava in 82325 la popolazione Thonga su
quella colonia; va sottolineato però che esistevano gruppi Thonga anche in
Natal, Rhodesia e nell'Africa Orientale Portoghese. Le notizie sui Thonga sono
dovute al missionario Henri Junod, e risalgono alla fine del secolo scorso, e ai
primi anni di questo secolo.
Gli uomini cacciavano le prede cercandone le tracce e seguendole insieme ai
loro cani. Generalmente gli uomini iniziavano a cacciare da soli, se riuscivano a
catturare da soli la preda, potevano appropriarsene e non dovevano spartirla
con nessuno. Se era troppo pesante per portarla a casa, il cacciatore urlava
forte: "Hoooooyiooo...", in modo da farsi sentire anche a molta distanza.
Oppure tagliava la coda e piantava il suo assegay nel terreno per mostrare il
suo diritto al possesso della vittima. Dopodiché, andava a casa e radunava dei
compagni che lo aiutassero a portare, che avrebbero ricevuto un pezzo di
carne. Ma se il cacciatore scopriva che non era in grado di catturare la preda,
suonava la sua tromba per chiamare aiuto.
Quando giungevano altri uomini affermava il suo diritto sulla preda con un urlo
convenzionale che gli altri ripetevano per riconoscergli il diritto.
Se anche abbandonava la caccia il suo diritto era stato proclamato. Allo stesso
modo si comportavano i cacciatori successivi. Quando la preda fosse stata
uccisa, il primo avrebbe ricevuto il corpo, il secondo una zampa posteriore, il
terzo una zampa anteriore, il quarto la gola; una porzione era riservata al
capo, proprietario del suolo su cui l'antilope era caduto.
Questa tecnica di caccia era chiamata “ku nyikanana”, reso in inglese come "to
surrender to each other".
Se il cacciatore uccideva un animale molto grande e voleva chiamare solo i suoi
compagni di clan ad aiutarlo, doveva ricorrere a uno speciale urlo, proprio di
ogni clan.
E' interessante soffermarsi sui diritti del capo sulle bestie uccise durante la
caccia.
Il rinoceronte non era tassato; era addirittura tabù portar la sua carne al capo.
Per la maggior parte delle prede, l'idea generale era che il capo dovesse
ricevere la parte del corpo che era in contatto col suolo, perché il capo era
proprietario del suolo, anzi era affermazione frequente che il capo era il suolo.
Così, il cacciatore aveva una zanna dell'elefante ucciso, ma quella a contatto
col suolo era del capo.
Analogamente avveniva per la carne della maggior parte degli animali.
L'ippopotamo era tassato più pesantemente di qualunque altro animale. Il
cacciatore che ne aveva ucciso uno non aveva il diritto di tagliarlo.
Doveva darne notizia alla corte, da cui giungevano degli uomini per tale
compito, che portavano metà della carne al capo. Anche se era ucciso un
coccodrillo, egli non poteva tagliarlo, perché il suo stomaco conteneva molte
cose, come pietre usate nella magia, gioielli di persone divorate, e così via. Il
capo si appropriava di ciò che voleva fra tali oggetti.
Per le più piccole antilopi tuttavia il capo non reclamava alcuna parte. La testa
degli animali di grandi dimensioni doveva essere mangiata sulla bandla, il
luogo d'incontro degli uomini nel villaggio.
Non era sconosciuta nemmeno la caccia con trappole.
I cacciatori dilettanti erano chiamati Bahloti, ma esistevano anche cacciatori
professionisti, i Mafisa. Essi cacciavano soprattutto elefanti. Non esisteva una
vera iniziazione per diventare Mafisa, né costituivano una vera e propria classe
all'interno della tribù, però essi erano molto rispettati e gli venivano attribuiti
poteri in qualche modo magici.
Al momento di compiere le loro lunghe spedizioni di caccia i Mafisa dovevano
seguire certi rituali e rispettare certi tabù.
Il più importante era il tabù sessuale.
Se i cacciatori l'avessero trasgredito, gli animali avrebbero attaccato gli uomini
che avevano peccato.
l tabù si estendeva anche alla moglie del cacciatore; la sua trasgressione
avrebbe prodotto gli stessi risultati di quella del marito. Attraverso i rituali e il
rispetto dei tabù il cacciatore sarebbe diventato wa-nhoba, cioè un uomo della
boscaglia, simile agli animali. In questo modo loro non l'avrebbero temuto, né
lui avrebbe temuto loro.
Un discorso a parte merita la caccia all'ippopotamo. In alcuni villaggi, vicino
allo Nkomati o ad altri fiumi, alcuni cacciatori possedevano questa speciale arte
chiamata butimba che si trasmetteva di padre in figlio. Questi uomini
possedevano fra l'altro una droga particolare che gli conferiva uno speciale
potere sugli ippopotami. Prima di intraprendere la caccia essi avevano rapporti
sessuali con la propria figlia. Questo atto incestuoso ne faceva un "assassino",
e avrebbe esaltato le sue capacità nella caccia.
La tecnica di caccia era la seguente: insieme ai suoi figli bloccava con una
canoa il sentiero su cui gli ippopotami dovevano tornare all'acqua; quando essi
si fermavano, venivano colpiti con un assegai avvelenato. Generalmente
l'animale era colpito con un secondo assegai; queste armi erano preparate in
modo che la lama, legata all'asta, se ne staccasse facilmente: l'asta avrebbe
galleggiato, se l'ippopotamo si fosse immerso nell'acqua, indicandone la
posizione. L'animale era colpito nuovamente quando riemergeva per respirare,
finché non moriva.
Seguivano due complessi riti, il lurulula e il luma, noi accenneremo solo al
secondo. Il luma è la rimozione di un tabù sul cibo che deve accompagnare il
primo boccone. E' obbligatorio per i primi frutti, per il cibo lasciato da una
persona morta, e così via.
Nel caso dell'ippopotamo, il cacciatore deve mettersi in bocca una parte del
diaframma dell'animale, immergersi nel fiume, e mangiare la carne sott'acqua.
Anche i figli e i vicini dovevano compiere il luma sulla carne dell'ippopotamo
con altre particolari ritualità.
Ognuno riceveva una parte di carne.
Dalle società egualitarie siamo passati alle prime cleptocrazie dove un capo,
identificato con il suolo, acquisisce il diritto di appropriarsi del frutto della
caccia altrui.
Nascono le prime caste: i cacciatori professionisti, e la divisione tra dilettanti e
mestieranti della caccia.
Si stanno configurando delle categorie che giungeranno fino ai nostri giorni con
tutta la loro conflittualità.
La semplice struttura tribale si trasfigura in società retta da regole di vita
sempre più complesse e rituali.
E’ interessante notare come le numerosissime tribù di cacciatori raccoglitori
studiate dagli antropologi, nel secolo scorso ed anche prima, indistintamente,
mostrino tutte una struttura sociale egualitaria pur sfruttando le risorse del
territorio ed avendo quindi l’interesse ad affermare un possesso sulla propria
area di caccia.
In nessuno di questi ruppi è mai sorto il desiderio di sostenere un qualunque
diritto di proprietà sul suolo: la terra, la foresta, sono considerati alla stregua
di una divinità e come tale inalienabile dall’uomo.
Nel passaggio alla struttura sociale degli agricoltori, perciò, il capo è dovuto
assurgere allo stesso livello sovrannaturale per giustificare il possesso del
suolo.
Con questo stratagemma ideologico: l’uomo/dio e una ristretta élitè sono
riusciti a fregare le masse!
Il sentimento della proprietà non sorge casualmente, ma contemporaneamente
alla nascita dell’agricoltura con la consapevolezza che la manipolazione dei
frutti della terra può procurare cibo senza la necessità di doversi spostare in
continuazione a cercarlo.
Ritengo che il senso della proprietà non sia sorto casualmente, visto il numero
di società di cacciatori e allevatori prese in esame e studiate dagli antropologi.
Appena nata, questa nuova cultura ha modificato le regole della caccia,
stravolgendone le regole ed i comportamenti del cacciatore:
ciò che è stato sempre di tutti diventa in parte anche di un uomo/dio che non
ha partecipato alla caccia.
Nella trasposizione nel presente, lo stato, che identifica il capo tribù delle prime
società di allevatori, dispone dello sfruttamento del prodotti ittici assegnando
quote di prelievo, diritti, in base ai tributi.
Mi sembra chiarito ora, per quale ragione siamo i meno considerati nella scala
di chi compie un prelievo in mare, perché il legislatore è particolarmente
severo nelle pene sulla pesca sportiva e limitativo nelle sue catture: siamo
un’anomalia nell’ordinamento sociale non paghiamo alcuna tassa su ciò che
preleviamo!