n. 04 - Chi siamo

Chi Siamo #4
Fino a 40.000 anni fa l’uomo viveva in bande nomadi di cacciatori raccoglitori e
probabilmente la maggior parte della comunità umana era raccolta in questi
piccoli gruppi, ancora 11.000 anni fa.
Com’era strutturata questa semplice società?
La banda era un’aggregazione egualitaria, senza capi.
Ai membri era assegnato un ruolo ed una specializzazione in base all’età ed al
sesso, ad esempio, le donne, che per obblighi naturali dovevano accudire alla
prole, svolgevano il compito di raccogliere i frutti della terra portandosi dietro i
figli, mentre l’uomo aveva il compito di cacciare.
Non esisteva un’autorità per risolvere i contrasti ed i conflitti interni al gruppo,
per cui l’omicidio era molto frequente.
All’interno della banda, tuttavia, i singoli non erano veramente eguali, perché
la forza, l’intelligenza e l’abilità nella caccia attribuivano un peso ed un
prestigio determinante al momento delle decisioni collettive.
Questo schema, nelle società preistoriche, probabilmente, era ricco di
sfumature, di regole, di usanze e di tabù, tali da rendere i vari gruppi molto
diversi tra loro. Così, come le rare società di cacciatori raccoglitori,
sopravvissute fino ai nostri giorni, sono apparse differenti agli occhi degli
antropologi che le hanno studiate. La struttura della banda appena descritta, si
adatta perfettamente all’attuale popolo dei San (Boscimani), ai Fayu (Nuova
Guinea), agli aborigeni australiani.
Dalla fine della glaciazione sino a circa 11.000 anni fa, il genere umano si è
moltiplicato in questo tipo di organizzazione sociale che, in ultima analisi, è
anche quello di molte altre specie animali dall’istinto associativo.
Le bande erano formate, prevalentemente, da individui legati da vincoli di
parentela ed avevano un rapporto decisamente ostile nei confronti degli
estranei, perché sia nell’uomo che negli altri animali, è un progetto genetico
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primario, vedere la propria progenie vincente rispetto ai cospecifici.
Quando appartenenti a bande confinanti si incontravano, si accendevano,
inevitabilmente, animate discussioni nelle quali si doveva appurare, se questi
avessero parenti o amici in comune, in caso contrario avrebbero cercato di
ammazzarsi a vicenda!
Ho citato questo particolare, per evidenziare come certi atteggiamenti
nell’uomo contemporaneo diramino le loro radici nel condizionamento che gli
antenati hanno ricevuto nelle strutture sociali preistoriche: il lontano ricordo
della lotta per il controllo dei territori di caccia e per l’eliminazione dei simili
non consanguinei, è mantenuto nella diffidenza verso lo straniero.
Sentimento, delle società moderne chiamato razzismo.
L’istinto della caccia si colloca in questa forma di condizionamento ricevuto per
migliaia di anni in un lontano passato e rimasto in noi come parte integrante
del nostro genoma, da alcuni sentito di più da altri meno o per niente.
Questi, in effetti, sono solo due esempi, ma se dovessimo indagare sulle origini
di altri comportamenti umani, arriveremo in molti casi alle regole di vita
contratte nelle lontane società tribali e mantenute fino oggi, nei vari passaggi
evolutivi, nonostante, oggi, non abbiano più alcuna motivazione funzionale!
All’organizzazione in bande composte da 5/80 individui, nelle situazioni di
maggior successo, per ambiente e risorse di cibo, seguirà, nel tempo, una
struttura più numerosa comprendente centinaia di persone: la tribù.
Questa organizzazione sociale era caratterizzata dalla residenza stabile in uno
o più villaggi, da usanze e da una lingua comune.
Anche il sistema sociale della tribù era di tipo egualitario: il capo acquisiva
potere in base alle sue capacità, la sua carica non era ereditaria e partecipava,
come tutti, ai lavori per la sopravvivenza e la sussistenza del villaggio.
Caratteristica comune di bande e tribù era il legame di parentela che univa il
nucleo centrale della struttura sociale (il legame di sangue).
La limitazione alla crescita continua, del numero sia della banda che della tribù,
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(omicidi a parte) era determinata dalla quantità di cibo che la natura metteva
loro a disposizione. Quando le risorse naturali, non erano più sufficienti a
sfamare le nuove generazioni, a parità di altre condizioni, la crescita della
popolazione si interrompeva.
Le risorse (i frutti della terra ricavati con la semplice raccolta e le proteine
ottenute con la caccia), nonostante la vita nomade, esercitarono una funzione
di controllo demografico importante per l’ecosistema nel quale l’uomo era
inserito, lo stesso controllo che veniva esercitato nell’espansione di tutte le
altre specie animali poste ai vertici di una catena alimentare.
Fino a questo punto dell’evoluzione delle specie animali, uomo compreso,
un’unica legge regolava la competizione all’interno e all’esterno delle specie: la
selezione naturale.
Le usanze e le religioni che gli antropologi hanno potuto studiare, nelle poche
bande e tribù sopravvissute fino ad oggi, evidenziano una cultura del rispetto
per l’ambiente nel quale il cacciatore si procurava il cibo. In alcuni casi la
foresta è il Padre, il sole, la pioggia, altri eventi naturali sono adorati come
divinità, in una visione panteistica del mondo dove l’animale cacciato, spesso, è
anche un Dio (il bisonte per alcune tribù degli indiani d’America).
Nelle società tribali non si assisteva mai ad una strage di animali che avrebbe
compromesso le risorse future provocando l’ira degli dei e soprattutto, avrebbe
messo a rischio la sopravvivenza delle generazioni future.
La storia dell’umanità, però, è guidata da un altro istinto, ancora più profondo
che si può porre all’origine di tutte le pulsioni, in tutte le forme viventi, dal
virus al mammifero più grande: il successo della propria specie!
Tra le piante e gli animali che naturalmente erano a disposizione dell’uomo,
solo una piccola parte era commestibile, forse lo 0.1 % . Questa limitazione
nelle risorse di cibo condizionava fortemente il successo dell’uomo ancora in
bilico tra una sopravvivenza stentata e l’estinzione per una calamità naturale.
L’uomo, così, come apprese l’uso del fuoco e della ruota, scoprì come
procurarsi il cibo modificando la natura: addomesticò gli animali utili al suo
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sostentamento, perché nel corso della loro vita offrivano più calorie del loro
equivalente in carne macellata (latte, uova, carne), sterminando i predatori che
cacciavano il bestiame domestico, imparò a coltivare le piante commestibili,
eliminando col fuoco le forme vegetali che non riusciva a digerire.
Dagli studi dei vecchi siti di insediamento umano, si è potuto stabilire che
l’allevamento e l’agricoltura si svilupparono in maniera differenziata
temporalmente, in particolari zone del pianeta, diffondendosi a macchia d’olio
nei territori circostanti in un processo durato, in alcuni casi, anche dei millenni.
In questo articolo non voglio approfondire dove iniziò questo corso che ha
cambiato radicalmente, la vita dell’uomo e di molte forme di vita del pianeta,
ma quali conseguenze sociali ha procurato.
La prima fu di instaurare uno stile di vita sedentario, legato ai campi coltivati.
Poi l’allevatore /agricoltore si trovò a dover gestire le eccedenze alimentari.
Il cacciatore / raccoglitore, nella sua vita nomade, non portava con se molto
cibo, ma il sedentario contadino poteva immagazzinare il surplus alimentare
accumulato.
Una donna nomade, oltre agli attrezzi indispensabili a preparare il cibo, non
poteva portare in braccio più di un figlio e doveva attendere che questo
camminasse prima di partorirne un altro. La donna sedentaria, invece, poteva
allevare quanti figli le scorte potessero sfamare.
Una prima conseguenza di questa evoluzione fu l’incremento esponenziale della
popolazione degli allevatori/agricoltori in rapporto a quella dei cacciatori
/raccoglitori che numericamente inferiori, o furono sterminati o si convertirono
al nuovo stile di vita.
La nuova struttura sociale degli allevatori/agricoltori che sfocerà
nell’aggregazione delle città, oltre all’incremento numerico dovette risolvere il
problema della proprietà, un sentimento nuovo per la cui tutela erano
necessarie nuove istituzioni sociali: la polizia e i governanti che si trovarono di
fronte anche i conflitti dovuti alla convivenza di gruppi non consanguinei.
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Quando, sfruttando la sua intelligenza, l’uomo ha forzato gli equilibri
dell’ecosistema globale per produrre cibo: bruciando le foreste per ricavare
campi coltivabili, sterminando gli animali selvatici in conflitto con quelli allevati,
è iniziato il processo irreversibile della mutazione terrestre.
Il pianeta di tutte le specie è divenuto il pianeta dell’uomo.
Il passaggio dalle società dei cacciatori/raccoglitori a quelle degli
allevatori/agricoltori, in maniera schematica (visto che il processo si è
sviluppato in un tempi lunghi e con svariate forme e soluzioni) rappresenta il
momento del distacco dalle regole di vita naturali.
Anche la natura dell’organizzazione sociale delle comunità umane si è
modificata: da società egualitarie si è passati alle cleptocrazie, dove una élite
di persone sottraeva una parte del surplus delle risorse prodotte dalla
popolazione, in teoria per ridistribuirle in opere di utilità collettiva (come la
costruzione di sistemi irrigui di grande portata), in pratica per arricchire se
stessa e la ristretta casta di religiosi che, culturalmente, ne supportavano la
necessità.
Il punto critico della presenza dell’uomo sulla terra, quindi, è la nascita
dell’agricoltura e della domesticazione animale.
Il limite dell’uomo (visto come animale), la sua intelligenza che l’ha condotto
oltre le leggi che governano l’equilibrio di tutte le forme di vita esistenti sul
pianeta.
Sotto questa luce, fino a 11.000 anni fa, l’attività della caccia era sicuramente
più compatibile con lo sviluppo del pianeta (come amano dire gli ecologisti) di
quanto non fosse l’agricoltura e l’allevamento.
Anche oggi, queste due ultime attività umane, a mio parere non si collocano
nel progetto di un’evoluzione naturale delle forme di vita terrestri perché, sia
per la flora che per la fauna sono nettamente sbilanciate verso le specie di
interesse alimentare per l’uomo e la deforestazione a vantaggio dell’agricoltura
è un fenomeno sempre più inarrestabile.
Decine di specie si estinguono ogni giorno e fra qualche centinaia di anni, le
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poche sopravvissute, tra quelle delle quali l’uomo non si ciba, saranno tenute
in vita forzatamente in piccole oasi naturali (quasi per diletto), mentre il resto
del pianeta sarà adibito unicamente a sfamare la popolazione mondiale.
La biodiversità si appiattirà sulle forme di vita di interesse alimentare per
l’uomo.
Con una miopia colpevole gli uomini di scienza non approfondiscono le cause di
questa situazione per non destabilizzare le cleptocrazie alle quali, come uomini
di cultura, sono funzionali. Pochi di loro affrontano l’argomento del controllo
demografico perché il modello di sviluppo delle società moderne richiede e
prevede una continua crescita della popolazione. Dal punto di vista religioso la
questione demografica è ancora più considerata un tabù, perché nessuna
religione ha interesse ad invitare i propri fedeli al controllo delle nascite, per
non subire la conseguenza di indebolire il loro potere fondato sul numero, ed
offrire un vantaggio alle altre religioni che non pongono limiti alla procreazione.
Anche i modelli di sviluppo del pianeta per chi si occupa della sua salute sono
sempre più ipocriti: gli ultimi incontri a livello mondiale a Kjoto , prima e ad
Amsterdam, dopo, si sono focalizzati sulle riduzioni delle emissioni di CO2 per
contenere l’effetto serra, senza contare che il progressivo aumento della
percentuale di anidride carbonica nell’atmosfera è, in ultima analisi, legato
all’incremento demografico (che se non vale per le nazioni sottosviluppate dove
i processi di combustione sono modesti, pro capite, lo diventeranno man mano
che le loro economie si porteranno a livello di quelle più industrializzate).
La strategia di creare falsi obiettivi da raggiungere per la normalizzazione dello
sviluppo, atti a confondere i cittadini del mondo, sul reale controllo degli eventi
planetari, non si limita solo all’effetto serra, ma riguarda anche altri fenomeni
naturali come la riduzione dell’ozono negli alti strati dell’atmosfera, o il
programma di estensione delle oasi protette che se produce effetti
nell’immediato, alla lunga, la vita al loro interno si livellerà sugli standard del
resto del pianeta.
Oggi la caccia e la pesca non sono più finalizzate al sostentamento di una
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collettività umana, non viviamo più in tribù e l’istinto della caccia è considerata
un’esigenza anacronistica di un gruppo di sanguinari, catalogata come attività
sportiva e ricreativa (sotto questa categoria, da tempo, vengono inserite tutte
le attività che non hanno una spiegazione evidente e non si sa bene perché
l’uomo le faccia, come scalare una montagna o stabilire un record).
Rappresentano tuttavia, la nostra carta d’identità del comportamento.
Nel prossimo futuro, quando la procreazione passerà attraverso la
fecondazione artificiale, probabilmente, anche fare sesso sarà visto come
un’attività sportiva, ricreativa!
Questa ricostruzione della storia dell’uomo, in cinque pagine, potrà sembrare
presuntuosa e limitata (non ha approfondito il condizionamento delle società
contadine, il passaggio dal baratto al denaro), ma vuole individuare un
momento critico nella cronaca della sua evoluzione che capovolge le
responsabilità storiche ed il giudizio sulla caccia.
Noi che proviamo le stesse pulsioni di lontani antenati abbiamo il compito di
recuperare un’antica cultura dimenticata, certo non per ricostruire le condizioni
di un lontano passato, ma almeno per capire da quale cultura veniamo!
Sono sicuro che dal nostro lontano passato può nascere un modello di sviluppo
alternativo a quello che ci viene propinato da politici ambientalisti integrati in
un modello di sviluppo al quale sono perfettamente funzionali.
Per chiarire “chi siamo”, noi cacciatori, non possiamo fare a meno di
interrogarci sul nostro lontano passato e sulle origini delle nostre pulsioni.
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