n.05 - Diario di pesca

25 Maggio, 2000

Diario di Pesca n°5
25 Maggio, 2000
Oggi, 25 maggio, poco prima dell’alba parto da Cala di Volpe col piccolo
gommone a chiglia pneumatica impiegato per le operazioni “mordi e fuggi”
che interpretano la mia attività nomade alla ricerca di zone di pesca
momentaneamente arricchite dall’arrivo di nuovi branchi.
E’ frustrante dover prelevare i pochi pesci stanziali (in questo periodo per lo più
saraghi) dalle poche zone del nord/est della Sardegna, dove la pesca
subacquea è ancora consentita.
Ieri, sotto costa, per non continuare a falcidiare saraghi di modeste dimensioni,
mi sono dedicato alla pesca dei polpi e vi garantisco che sono diventati abili
anche loro nello sparire in anfratti inaccessibili!
C’è bonaccia e la destinazione è la secca dei Monaci. L’ultima volta che l’ho
visitata, il 14 di aprile, l’acqua era ancora torbida e fredda, ma la stagione
sott’acqua sta cambiando: un modesto termoclino allieta le immersioni nel
basso fondo e ho già indossata la giacca da 5 mm di spessore, quella
“mezzastagione” dal mimetismo di superficie.
Esco dalla profonda insenatura della cala, in tempo per vedere il sole sorgere
sul mare: poco prima di staccarsi dall’acqua, il disco rosso si allarga in una
specie di supporto, un piedistallo, sull’acqua.
Il fenomeno ottico mi incuriosisce e sono ancora indeciso se si tratta di
diffrazione con l’orizzonte o di diffusione per le particelle di vapore acqueo nei
bassi strati dell’atmosfera.
E’ incredibile che una scena vista migliaia di volte abbia ancora dei particolari
sconosciuti.
Sappiamo cogliere della realtà solo pochi aspetti legati alla nostra cultura!
Un poeta vi avrebbe visto il trionfo della natura.
Un ecologista l’inquinamento dell’atmosfera.
Un impiegato, forse, non lo avrebbe notato affatto, afflitto dalla necessità di
alzarsi presto per il lavoro.
Mi convinco sempre di più che la nostra visione è un fenomeno
prevalentemente cerebrale, di interpretazione del mondo esterno: la stessa
scena vista da tre persone diverse viene sicuramente elaborata e interpretata
in tre maniere distinte .
Anche le immagini che tutti riteniamo un dato oggettivo, sono invece
estremamente “soggettive” !
Lo stesso problema, sicuramente, coinvolge anche i pesci: c’è quello che
confonde il subacqueo immobile sul fondo con una roccia e quello che invece
lo riconosce e se la fila!
Quando ci riferiamo ad una famiglia di pesci tendiamo sempre ad attribuire
caratteristiche comuni a tutti gli individui, mentre sicuramente ci saranno delle
sfumature nella varietà , nelle capacità individuali.
Tutto ciò porta all’evoluzione della specie ed io contribuisco, mio malgrado, a
questa evoluzione rendendo i sopravvissuti e le nuove generazioni più scaltre e
diffidenti.
A metà percorso, le schiene e le pinne dorsali di un branco di delfini che
affiorano dalla superficie del mare mi allarmano un poco: se questi predoni
sono passati dalla secca dei Monaci non troverò neppure le castagnole!
Appena immerso mi rendo conto dell’acqua più calda e trasparente, rispetto la
volta precedente: gruppi di saraghi fasciati tappezzano alcuni cappelli della
secca, ma è difficile avvicinarli “in caduta” per la corrente da tramontana,
dominante in questo tratto di mare.
L’acqua è letteralmente invasa da una colonia di Ctenofori, il cinto di Venere,
nastro trasparente che con movimenti sinuosi serpeggia vicino alla superficie,
alcuni mostrano di essere stati sbocconcellati da qualche pesce.
Altre forme di vita, volgarmente chiamate meduse, completano lo scenario e
mi sfiorano in superficie, mentre sto ventilando.
La visibilità è intorno ai 15 metri e sul fondo la temperatura dell’acqua si aggira
ancora sui 14° C, ma basta tornare in superficie per sentire il beneficio dei
19/20 gradi della primavera inoltrata.
In questa secca ho un percorso ormai collaudato negli anni: ancoro sul sommo
meno profondo e dirigo verso nord, alternando immersioni alla base dei
“cappelli” con alcune più vicine alla superficie, le prime finalizzate all’aspetto
dei dentici, le seconde per portare l’agguato ai saraghi che di solito si
ammassano sulle pareti sopra corrente (striscio sulla parte alta della secca fino
ad affacciarmi sulle pareti di roccia verticali).
Dopo pochi metri mi trovo a strisciare nella stessa direzione di un branco di
ricciolette che mi controllano sospettose, guardandomi “di coda” prima con un
occhio, poi con l’altro.
Non ho ancora intuito in quale situazione venatoria mi verrò a trovare e
nell’incertezza mi appoggio stupidamente su un pianoro senza ripari,
completamente allo scoperto.
Mi guardo in giro: mi puntano due orate di un paio di chili, ma la cattura di
questo sparide all’aspetto, purtroppo, è occasionale e soprattutto richiede una
buona “copertura” mimetica, così la cattura sfuma.
Ho incontrato già diversi pesci senza aver avuto l’opportunità di fare un tiro.
La corrente rende difficile ogni avvicinamento.
Rinuncio all’agguato, per un preferirgli l’aspetto tra due guglie alte una
quindicina di metri. Alla base, una piccola franata, a volte, recluta qualche
cernia, però, con la temperatura dell'acqua più calda.
Per guardarmi intorno, mentre scendo, sto per appoggiare la mano sulla testa
di una murena che si ritira prontamente.
Sono già un po’ distratto, ma infilare la mano nella sua tana…Mi sposto più
avanti e prendo posizione, proprio con un sasso a copertura frontale del corpo.
Sono nella fascia dell’acqua fredda e tutta la “mangianza” staziona più in alto:
castagnole, boghe e menole si distinguono chiaramente in controluce, così
come la sagoma di due dentici che hanno appena girato una guglia provenendo
dietro la parete verticale.
Sono molto in alto, nello strato caldo e difficilmente verranno a vedere sul
fondo.
Le ripide pareti rocciose, però, devono aver prodotto l’eco delle mie vibrazioni
e amplificato un rumore stuzzicante, così, mentre uno dei due compari
continua la sua ricerca controcorrente, l’altro si dirige verso di me,
mantenendo una posizione alta e defilata.
Rimpiango di non avere ancora l’attrezzatura per la ripresa della scena, perché
nella luce diffusa dalla superficie le squame del dentice esplodono in mille
riflessi.
Mi sto già sollevando per una planata verticale, quando il dentice punta verso il
basso, sono indeciso sul tiro di muso quando lo splendido predone si gira,
offrendo il fianco.
Si capisce che non è un dentice “suicida”, ma quando le situazioni prendono il
verso giusto è impossibile sbagliare.
L’asta all’impatto produce un suono sordo perché il colpo arriva vicino alla
vescica natatoria che ne amplifica il rumore.
Il pesce si infila sotto uno dei sassi della franata e inutilmente cerco di
recuperarlo dalla superficie (questo sarebbe il massimo del godimento!).
Sono costretto ad una seconda immersione, la tana è ampia e corta, il dentice
ha la coda fuori, l’agguanto e controllo l’asta. La doppia aletta ha fatto il suo
dovere: non ha consentito all’asta, nonostante il pesce si sia dibattuto, di
ruotare nella ferita e di sfilarsi dalla carne.
Risalgo abbracciato al dentice e mentre sto valutandone il peso i
filamenti urticanti di una Pelagia noctiluca mi sferzano le labbra.
Ho già assaggiato questo inverno i suoi tentacoli che mi hanno lasciato una
cicatrice permanente, ma non mollo il pesce. Risalgo sul gommone e mi
sciacquo abbondantemente.
Il dolore è lancinante e dimezza il piacere della cattura. Provo a tenere il
boccaglio dell’aeratore in bocca, ma non ci riesco. Devo correre in farmacia, ho
bisogno al più presto di una pomata anestetica. D’ora in poi terrò la crema
“Foille” nella borsa dei documenti!
Unica nota positiva è il dentice di 7 chili, il primo della stagione calda.
Da oggi so che le condizioni ambientali premieranno sempre più spesso la mia
pesca al dentice.
Con l’acqua calda sono arrivati i primi branchi, come le prime piogge portano
gli Gnù nella pianura del Serengheti, in Africa.